Frammenti

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Ventisei anni fa mi sono imbattuto, grazie ad A. J. Pulos, nella migliore e meno ideologica definizione di design, che mi ha chiarito molte cose e alla quale sono rimasto affezionato: ‘Il design è un sottoprodotto dell’attività inventiva’. Questa affermazione, che può parere una semplice constatazione e che non lo è invece affatto, la si deve a Peter Schlumbohm: il quale, per altro, non aveva intenzioni o velleità definitorie. Inattaccabile: e questa sua limpidezza (tutt’altro che ingenua) permette di disboscare il campo dalle centinaia e centinaia di pagine che sono state scritte, specialmente in Italia, nel corso del tempo, almeno a far data dalla famosa proposizione rogersiana ‘dal cucchiaio alla città’, amata, odiata, fraintesa, ripudiata, riproposta. Pagine tutt’altro che da buttare, si intende; ma più o meno sottilmente invasive, derivando il più delle volte da discipline consolidate e per questo, anche se involontariamente, onnivore, autoritarie: caratteri questi ben lontani, anzi del tutto estranei, ai nostri mondi delle arti applicate. Che non possono che basarsi appunto, per essere tali, su di un ininterrotto processo inventivo, meglio ancora se coltissimo e raffinatissimo (si potrebbe anche usare il termine ‘ricerca’, che però sarebbe subito foriero di equivoci e travisamenti), che nella sua continuità lascia volta a volta sul campo cose, case, prodotti, opere, e così via. Il mondo fisico in cui viviamo.

Questa caratteristica è fondamentalmente garbata, e spesso è tentata di cercare certezze e conferme altrove; nulla di male, purché non si smarrisca il proprio filo. Peter Schlumbohm era tedesco di Kiel, dottore in chimica presso l’Università di Berlino (aveva rinunziato a ogni eredità familiare in cambio del mantenimento teoricamente illimitato agli studi), dichiarato antimilitarista (prima guerra mondiale vissuta sul fronte duro, Ypres compreso), nel 1935 emigrato definitivamente negli Stati Uniti abbandonando il proprio paese, allora ben poco consigliabile. Dopo una quarantina di brevetti inventa nel 1941 la caffettiera in vetro borosilicato, prodotto dalla Corning Glass, che diverrà famosa con il nome di Chemex, quello della Corporation per l’occasione da lui appositamente fondata. Di   questa sua caffettiera stupefacente spiegava che la forma a clessidra era dettata strettamente dalla funzione, quella di produrre il caffè per filtraggio via carta, e che questa tecnica derivava da procedimenti usati, per altri scopi, nei laboratori di ricerca. Certamente. Ma la sua eleganza è folgorante e necessaria (al solito: sfrenata e low cost, come capita solo nei casi più felici).

L’impugnatura giustamente bipartita è in legno di tonalità brune, voluttuosamente sagomato e proporzionato, e le due parti, ovviamente smontabili per la necessaria pulizia, sono tenute insieme da un lacciuolo di cuoio a sezione quadrata lasciata grezza sui due bordi laterali, annodato con garbo sicuro attorno a una piccola sfera forata di legno anch’essa, ma bianco. Le estremità   dei lacciuoli terminano con altri due nodini, graziosissimi perché elementari. Luxe, calme et volupté (Baudelaire, poi Matisse), più economia e comfort: può allora esistere una dolcezza del vivere anche dopo la rivoluzione, non è del tutto vero quanto diceva Talleyrand. Esistono ancora spazi che possono essere percorsi, vissuti, e oggetti che li popolano, che possiamo usare, che ci parlano. La storia della vita di Schlumbohm è impareggiabile, ma ora purtroppo sarebbe troppo lungo raccontarla. Lascerà complessivamente più di trecento brevetti di oggetti e dispositivi vari, alcuni dei quali -fra quelli ad uso domestico- si trovano accanto alla caffettiera Chemex nella collezione permanente del MoMA. Schlumbohm amava chiamarli ‘Beautilities’.

La Chemex è stata anche dichiarata fra i cento best-designed items moderni dall’Illinois Institute of Technology di Chicago, e anche lo Smithsonian e il Philadelphia Museum l’hanno inclusa nelle loro collezioni. Riguardo al suo modo di progettare, diceva che il 20% discende dal processo inventivo, il 40% richiede la messa a punto della brevettabilità dell’idea, poi il Good Design (‘eliminate tutto quello che è sbagliato, ciò che rimane sarà giusto’) incide per il 30%, infine il merchandising conta per il restante 10%. La Chemex veniva assemblata a Manhattan in una piccola factory dove lavoravano in tutto otto donne: un’interessante sorta di startup ante litteram: Schlumbohm diceva (prendendosela in particolare con l’industria automobilistica), che i giovani dovrebbero ignorare ‘the lure of a big company’s payroll with its nerve-killing conformism, to go out on their own, to be their own boss, to apply their knownledge to creating Beautilities instead gorilla-guided missiles’.